STEP#11 - LAVORO DURANTE L'EMERGENZA
La Costituzione Italiana identifica
nel lavoro il fondamento della nostra Repubblica democratica, la quale infatti “riconosce
a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo
questo diritto” (Art. 4, C.).
Questo perché l’attività lavorativa è da sempre un elemento caratterizzante
della nostra società, che ne ha seguito
l’evoluzione storica, adattandosi e
trasformarsi a seconda dei diversi contesti ed epoche.
E non a caso anche in questo periodo storico, durante una pandemia globale,
la parola d’ordine, a fianco a “salute”, continua ad essere proprio “lavoro”.
È dunque indispensabile che esso si esplichi in modalità diverse da quelle convenzionali, per rispettare le nuove esigenze e i nuovi standard di sicurezza.
Ecco come dipendenti e liberi professionisti di tutt’Italia, e non solo, si
sono ritrovati catapultati nel mondo dello “smart working”, qualificato dal Ministero del Lavoro e delle
Politiche Sociali “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro
subordinato caratterizzato dall'assenza di vincoli orari o spaziali e
un'organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra
dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a
conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della
sua produttività”.
Questa definizione, contenuta nella Legge n. 81/2017, pone l'accento sulla
flessibilità organizzativa, sulla volontarietà
delle parti che sottoscrivono l'accordo individuale e sull'utilizzo di
strumentazioni che consentano di lavorare da remoto, con l’obiettivo di
rappresentare questo nuovo modo di produrre come l’unico, in un futuro nemmeno
così remoto.
La stessa cosa fa l’Osservatorio del Politecnico di Milano descrivendo il
“lavoro agile” come "una nuova filosofia manageriale fondata sulla
restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi,
degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore
responsabilizzazione sui risultati”.
Il lavoro intelligente si presenta quindi come un'ottima misura, oggi per
ridurre i rischi, economici e sanitari, domani per favorire un’ottimizzazione
della produttività, maggiormente conciliabile con esigenze familiari, sociali e
personali.
Tuttavia la pratica ha fatto in fretta a smentire le belle parole delle
definizioni teoriche; lo sostiene Open, che in un articolo scrive: "questa forma di
lavoro, non si può definire smart working perché manca l’elemento essenziale
che caratterizza il “lavoro agile”: la libertà di scegliere come alternare il
posto, le modalità, gli strumenti e il tempo di lavoro."
Lo “smart worker”, cui era stata promessa una maggiore discrezionalità
nella gestione di tempi e luoghi di lavoro, si ritrova in momento a dover
lavorare sempre: l’utilizzo della messaggistica
istantanea, la comunicazione attraverso contatti personali (che sarebbero
dovuti restare tali), l’assenza di fasce
orarie di disponibilità predefinite, costituiscono una gabbia che intrappola il lavoratore, alienandolo e causandogli ansia e stress costanti, che lo allontanano sempre più proprio dalla
famiglia e da se stesso
Ad essere penalizzati maggiormente, come si può facilmente immaginare, sono
i precari e i giovani (ma non solo) che lottano con le unghie e con i denti
verso un contratto a tempo indeterminato, e proprio in loro sta nascendo una
nuova consapevolezza che li porta a rivendicare il proprio diritto alla disconnessione.
Insomma, il tentativo di oggi può però essere un inizio per un modo innovativo
di lavorare in futuro, ma è necessario rivedere il concetto di fondo in
un’ottica più favorevole nei confronti proprio dei protagonisti assoluti in
questo campo.
Allego gli articoli da cui ho tratto le mie considerazioni sul tema: