lunedì 30 marzo 2020

STEP#04- IL LAVORO NELLA MITOLOGIA

Le Opere e i giorni,è un testo precettistico e sapienziale e, in quanto tale, presenta un contenuto didascalico, un destinatario e l’autore che si fa ‘educatore’.
A differenza dei convenzionali poemi didascalici in cui i destinatari sono fittizi, quest’opera è indirizzata da Esiodo, poeta greco dell’ VIII secolo a.c.,  a suo fratello Perse,cui rivolge tanto la sua sapienza quanto le sue invettive.
In questo testo egli racconta delle cinque età nelle quali vissero gli uomini dalle origini fino al presente, puntando particolare attenzione sui lavori che essi compiono quotidianamente. Nella narrazione Esiodo sviluppa il mitologema del paradiso perduto, che egli individua con “l’età dell’oro”, dove gli uomini vivevano senza preoccupazioni, perennemente giovani, nutriti dalla terra stessa senza compiere nessun lavoro. Da questa età però avviene un continuo peggioramento del carattere umano. L’apice del deterioramento delle condizioni umane secondo Esiodo è “l’età del ferro”, ovvero la stirpe di uomini che tuttora vive sulla terra, caratterizzata dalla sofferenza, dalla violenza, dall'ingiustizia e dal fatto di dover “distruggersi per la fatica e per la pena” (ossia per il lavoro) al fine di sopravvivere.
E l’autore sottolinea la necessità del lavoro in quest’epoca con queste parole:

"L'uomo migliore è colui che tutto capisce da sé,
sapendo ciò che in séguito e infine meglio sarà;
capace è anche colui che obbedisce a chi bene gli parla;
ma chi non sa capire da sé né ciò che sente da altri
si pone nel cuore, quello è un uomo da poco.
Ma tu ricorda sempre i miei consigli:
lavora Perse, stirpe divina, perché Fame
ti odî e t'ami l'augusta Demetra dalla bella corona,
e di ciò che occorre per vivere t'empia il granaio.
Fame sempre è compagna dell'uomo pigro;
e uomini e dèi hanno in odio chi, inoperoso,
vive ai fuchi senz'arma somigliante nell'indole,
i quali la fatica dell'api consumano in ozio,
mangiando; a te sia caro occuparti di opere adatte
perché del cibo nella sua stagione raccolto ti si empia il granaio.
Grazie al lavoro gli uomini hanno grandi armenti e son ricchi,
e lavorando sarai molto più caro agli dèi
e anche agli uomini, perché i pigri hanno in odio.
Il lavoro non è vergogna; è l'ozio vergogna;
se tu lavori, presto ti invidierà chi è senza lavoro
mentre arricchisci; perché chi è ricco ha successo e benessere.
Per te, dove t'ha posto la sorte, è meglio il lavoro.
Distogli dai beni degli altri l'animo sconsiderato
e al lavoro rivolgiti, pensa ai mezzi per vivere, così come io ti consiglio.
Non è una buona vergogna quella che accompagna l'uomo indigente,
la vergogna che gli uomini molto danneggia o aiuta;
alla miseria si aggiunge vergogna, alla fortuna l'audacia.
La ricchezza non dev'esser rubata: è molto migliore quella che danno gli dèi;
qualcuno con la violenza può conquistare un gran bene
o rubarlo con le parole, come assai spesso
suole accadere, quando il guadagno inganna la mente
dell'uomo, e allora Sfrontatezza vince Vergogna;
ma allora facilmente l'abbatton gli dèi, distruggon la casa
a quell'uomo, e per poco tempo la fortuna lo segue.
Come colui che al supplice e all'ospite usa violenza,
o come colui che del fratello il talamo ascende
e furtivo si giace con la sposa di lui, compiendo uno scellerato delitto,
o come chi, pazzo, contro gli orfani commette ingiustizia,
o come chi con l'anziano suo padre, sulla triste soglia della vecchiaia,
alterca, e l'assale con parole d'ingiuria;
contro di lui si adira Zeus stesso e alla fine
in cambio delle azioni malvagie dura gli dà ricompensa.
Ma tu da ciò allontana sempre il tuo cuore leggero.”

Le origine mitiche del lavoro sono ravvisabili nell’opera di Esiodo nel mito di Prometeo e Pandora:

Risulta evidente come ne Le Opere e i Giorni il lavoro abbia un’accezione fortemente negativa, tanto da essere la cifra distintiva dell’età peggiore per gli uomini.

STEP#03 - La mia rappresentazione del concetto


mercoledì 25 marzo 2020

STEP#02 - STORIA DEL TERMINE

Il termine lavoro, come già evidenziato, deriva dal latino “labor”, fatica. Infatti nella cultura greca e in quella romana, il lavoro manuale era prerogativa dei ceti sociali inferiori, asserviti ai signori aristocratici.
Il lavoro, quindi, era la linea di demarcazione degli status sociali: chi lavorava era in uno stato di subordinazione e doveva essere disprezzato, chi, invece, non era impegnato in alcuna attività lavorativa era da stimare, poiché aveva il tempo e le risorse per dedicarsi ad attività intellettuali, le uniche veramente nobili.
Con il cristianesimo si assiste alla rivalutazione del lavoro, quale attività necessaria, e per questo non disdegnabile, ma comunque inferiore.
Alcuni, tuttavia, iniziano a discostarsi da questa visione; basti pensare alla regola del monachesimo benedettino «ora et labora» . Anche san Tommaso giudica positivamente il lavoro, come legittimo fondamento del guadagno e della proprietà, che però non deve travalicare e allontanare da Dio, l’unico davvero capace di soddisfare i reali bisogni umani.
Il lavoro viene però veramente visto sotto una nuova luce con la Riforma protestante, operata da Lutero (1483-1546), per cui l’ozio è evasione peccaminosa, la vita monastica è scelta egoistica di chi sfugge ai propri doveri verso il prossimo, e soprattutto da Calvino. (1509-1564)
Per quest’ultimo ogni uomo è “strumento” della divina Provvidenza, e la sua operosità permette il miglioramento la propria posizione sociale, nonché il riscatto dal peccato. L’attività lavorativa non ha, quindi, non trova il proprio valore e la propria ragion d’essere in sé, nei risultati che ne scaturiscono.
Mentre il Rinascimento celebra la creatività del lavoro, al quale è riconosciuto un valore intrinseco, nel Seicento, con la Rivoluzione scientifica, l’uomo diviene consapevole della propria capacità di controllare la natura e piegarla alle proprie esigenze con il suo lavoro. Nel secolo successivo, tuttavia, i lumi tornano a vedere le attività pratiche come degradanti e abiette.
Questo percorso conduce alla concezione, facilmente deducibile dalla costituzione del 1948, che abbiamo oggi in Italia del lavoro, fondamento del nostro ordinamento repubblicano, nonché diritto fondamentale. La concezione del lavoro come punizione, fatica e dolore è scomparsa, per lasciare spazio alla convinzione che esso sia fonte di ricchezza, di valore e di libertà.

Art. 1, c. 1, C “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro

sabato 21 marzo 2020


STEP#01 - DEFINIZIONE, ETIMOLOGIA E TRADUZIONE

Etimologia:

L’origine etimologica della parola lavoro è da ricondursi al latino labor =“fatica”.
Si può risalire inoltre alla radice sanscrita labh- = “afferrare”, per estensione, “orientare la volontà, il desiderio, l'intento”, oppure “intraprendere, ottenere”.
La stessa idea viene espressa, in greco antico, dal verbo λαμβάνω (lambano) = “afferrare, prendere, ottenere”, che sembra ragionevolmente riconducibile alla medesima radice sanscrita appena citata.
A livello etimologico, dunque, il termine esprime l’idea di un'attività faticosa, orientata a risultati che il lavoratore si prefigge.
Fonte:https://www.etimoitaliano.it/search?q=lavoro


Definizione:

lavóro s. m. [der. di lavorare].
1.
a. In senso lato, qualsiasi esplicazione di energia (umana, animale, meccanica) volta a un fine determinato: il l. dell’uomo, dei buoi, del computer;
b. Più comunem., l’applicazione delle facoltà fisiche e intellettuali dell’uomo rivolta direttamente e coscientemente alla produzione di un bene, di una ricchezza, o comunque a ottenere un prodotto di utilità individuale o generale: il l. manuale, il l. intellettuale; i frutti del l.; essere inabile al l.;
 c. In senso più concr., l’attività stessa applicata praticamente a un oggetto determinato:  terminare un l.; assumersi un l.,  essere al l
2. concr.
a. L’opera cui si attende, la cosa intorno a cui si lavora
b. Il risultato del lavoro, l’opera compiuta (anche di opere dell’ingegno):
4. Nel linguaggio scient., e in partic. in fisica, l. di una forza, grandezza associata a una forza quando il punto di applicazione di questa si sposta
Fonte: http://www.treccani.it/vocabolario/lavoro/


Il legame con il concetto di fatica diventa molto più evidente in alcuni dialetti italiani, fra cui il marchigiano; infatti, nelle Marche, i dialettofoni, non dicono di andare a “lavorare”, bensì a “faticare”.
A prima vista sembra distinguersi il Piemonte, che appare anche a livello linguistico molto più vicino al francese con il suo “travajé”; tuttavia questo termine, insieme al siciliano “travagghiari”, discende dal latino “tripalium”, strumento di tortura, quindi anche in questo caso è evidente il collegamento ideale tra lavoro e travaglio.
Insomma, la storia delle lingue romanze sembra dar ragione a chi oggi considera il proprio lavoro come qualcosa di negativo.
Un sentimento contrario trasmettono, a una prima lettura, le traduzioni di questo concetto in russo e in polacco, rispettivamente “rabota” e robota; tuttavia, queste sono risalenti alla radice indoeuropea *orbh- , che fa riferimento a uno stato di necessità e di mancanza (non a caso in italiano la ritroviamo in “orfano”), quindi si può rinvenire anche un questo caso un’accezione negative conferita al termine.
In ceco, infatti, la parola robota indica soprattutto un lavoro servile.
Con riferimento a questo idioma, però, lo scrittore e drammaturgo ceco Karel Čapek coniò nel 1921 il termine robot, che inizialmente indicava una specie di replicanti, mentre oggi si utilizza genericamente per parlare di meccanismo elettronico che svolge per conto nostro una parte del nostro lavoro.

STEP#12 - NEL PENSIERO MEDIEVALE "Il lavoratore si prenderà un lungo riposo al mattino; buona parte del giorno sarà trascorsa prima...